Una delle cose che preferisco è andare a vedere i siti dei colleghi traduttori.
Mi piace guardare come hanno organizzato il sito e se qualche idea mi piace particolarmente prendo spunto (come direbbe Austin Kleon, rubo come un artista). La prima pagina che cerco sempre è l’about me page, in parte perché ho impiegato parecchio prima di averne una mia che mi piacesse, ma principalmente perché mi piace leggere le storie di come i colleghi sono arrivati a questo lavoro.
Resto sempre un po’ sconcertata quando leggo: “già a tre anni (cinque, dieci, insomma, da piccoli) sapevo che avrei fatto il traduttore” oppure “a dieci anni (o giù di lì) ho fatto la mia prima traduzione e da allora non mi sono più fermato“, perché io ho vagato nella nebbia più totale fino all’università. Non è che non avessi delle idee su cosa volessi fare da grande, anzi, ne avevo fin troppe. Per certo sapevo cosa non volevo assolutamente fare: lavorare in ufficio. E infatti ho iniziato a lavorare in ufficio dal terzo anno di università e ci sono rimasta per quasi vent’anni. Da piccola sognavo di fare la pediatra o la veterinaria (animali e bambini per me appartengono da sempre allo stesso insieme concettuale: esseri indifesi). Passavo giornate a visitare e curare pupazzetti e bambole. Ben presto però ho scoperto di avere il terrore per tutto quello che aveva a che fare con i medici; in famiglia circolano numerosi aneddoti divertenti sulle mie performance dal medico o dal dentista: da quando mi hanno dovuta inseguire ed estrarre da sotto il tavolo dell’ambulatorio dove ho fatto il primo prelievo del sangue, a quando ho morso il dentista che doveva estrarmi un molare da latte che non voleva cadere da solo. Così ho capito quasi subito che non avrei avuto un futuro nella medicina.
In seconda elementare, grazie ad un fantastico maestro, ho scoperto mitologia e storia, un amore che dura ancora oggi. A sette anni conoscevo tutti i miti greci e romani de “Il grande libro della mitologia”. Alle medie ho iniziato a studiare inglese, così storia ha iniziato ad avere un concorrente. Mi ero talmente innamorata dell’inglese che ho fatto carte false per convincere i miei genitori a mandarmi un mese in vacanza studio a Londra quell’estate. A dodici anni ero la più piccola del gruppo e probabilmente la più entusiasta, al punto che non ho praticamente mai chiamato casa, ero troppo impegnata.
Mi piaceva tutto: i corsi, le gite, i monumenti, mi piaceva persino l’orrido pocket lunch che ci consegnavano ogni sabato prima delle escursioni da un giorno. Io che venivo da Mantova, che non è esattamente una metropoli multietnica nemmeno oggi, rimanevo sbalordita principalmente dalle persone: era l’epoca dei punk e le strade di Londra erano piene di ragazzi con i capelli colorati di viola e blu, c’erano persone di tutte le etnie e di tutte le religioni. E poi la lingua, bellissima, “come parlano bene gli inglesi!” è stato il mio primo commento tornata a casa. Alle superiori ho sbalordito tutti scegliendo il liceo scientifico: il liceo linguistico a Mantova non esisteva se non come costosissima scuola privata. Certo si poteva scegliere il classico sperimentale, che era una specie di ibrido senza greco e con due lingue straniere, ma il classico era troppo orientato alle materie umanistiche e io volevo essere libera di scegliere una qualunque università alla fine delle superiori. Non sapevo ancora cosa volevo fare da grande e lo scientifico mi dava l’opportunità di studiare un po’ di tutto, sia le materie umanistiche che quelle scientifiche. Perché a me piacevano inglese, italiano e storia, ma avevo una passione anche per scienze e tecnica. Il liceo scientifico mi ha dato tantissimo in termini di qualità dello studio e di forma mentis, sono stata fortunata perché ho avuto quasi tutti professori molto bravi e preparati.
Alla fine della quinta però, era chiaro che quello con le scienze era un amore non propriamente corrisposto, più o meno me la cavavo, ma non ero veramente brava. Ma c’erano ancora loro, inglese e storia, a contendersi il mio cuore, tanto che sono le materie che ho portato agli esami orali della maturità. A quel punto il tempo era scaduto, dovevo scegliere e alla fine ha prevalso la posizione dei miei genitori che ritenevano che la laurea in storia fosse poco spendibile dal punto di vista lavorativo e che la laurea in lingue mi offrisse molte più opportunità di impiego. Del mio lavoro “da grande” sapevo solo che avrebbe avuto a che fare con i libri, altro grande amore, così ho iniziato ad interessarmi ai lavori nel mondo dell’editoria, quindi anche al lavoro di traduttore. Certo mi sarebbe piaciuto anche fare lo storico, i miei miti si chiamavano Marc Bloch e Jacques Le Goff. Il conflitto sembrava insanabile, finché all’università non ho scoperto filologia, che metteva in gran parte d’accordo le mie passioni. Nel frattempo, dal secondo anno, avevo iniziato a lavorare. Prima qualche lavoretto, poi, dall’anno successivo ho iniziato a lavorare proprio in quell’ufficio dove non volevo finire e dove sarei rimasta per quasi vent’anni, perché lasciare un lavoro sicuro sembrava a tutti un irresponsabile colpo di testa, una cosa che proprio non si fa.
Così la tesi finale in filologia germanica è stato il mio canto del cigno, l’addio ai sogni, in fondo da adulti si deve diventare concreti e fare quello che è giusto. Finita l’università avevo già un lavoro, convivevo, avevo una casa da mandare avanti e un po’ di rassegnazione nel cuore. Il lavoro in ufficio in fondo non era così male, facevo traduzioni che mi davano l’opportunita di vedere testi che spaziavano dal commerciale al marketing, passando per il tecnico con una spolverata di legale, e poi mi piaceva il contatto con i clienti. Finché alla fine del 2011, mentre ero a casa in maternità, il titolare dell’azienda dove lavoravo ci ha comunicato la decisione di chiudere gli uffici e trasferire il tutto. Alla fine del 2012 il mio licenziamento diventa una triste realtà, il lavoro sicuro non era per niente sicuro, e con un bimbo piccolo la ricerca di un nuovo lavoro in ufficio diventava una corsa a ostacoli e, diciamocelo, anche un po’ un miraggio. Così mi sono detta, perché invece di investire tempo ed energie per riprendermi un lavoro che non è il mio, non li investo per riuscire finalmente a fare il lavoro che voglio fare “da grande”? Ed eccomi qui, quasi quattro anni dopo la decisione, con un’attività che sta ancora cercando di decollare, ma che mi rende immensamente felice e che mi ha anche permesso di realizzare il sogno di conciliare l’inglese con la storia: lo scorso anno ho tradotto ben due libri di storia.
Ebbene no, a tre anni non sognavo di fare la traduttrice, ma oggi sono esattamente dove voglio essere e faccio quello che mi piace davvero fare; in fondo, come si dice, tutte le strade portano a Roma, io ho semplicemente preso la panoramica.
Ciao Debora, mi è piaciuta tantissimo la tua storia, complimenti per la tua bellissima carriera.
Anche a me piacerebbe intraprendere questa strada, sono italiana ma abito a Dubai da tanti anni e vorrei trasformare la mia buona conoscenza dell’inglese in un lavoro…mi puoi consigliare una buona scuola che posso frequentare dall’estero che mi possa dare una qualifica per fare la traduttrice?
Spero potrai rispondermi, in caso ti ringrazio anticipatamente!
Ciao
Amanda
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Ciao Debora, ho una storia per certi versi simile alla tua.
Complimenti per la tua carriera e anche per il coraggio.
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Ciao, grazie mille per i complimenti. E un grande in bocca al lupo.
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Ciao, scusa per il ritardo nella risposta, ma l’ho vista solo ora. So che la scuola per interpreti e traduttori di Pescara si occupa di formazione online. Non la conosco direttamente, ma i programmi mi sembrano interessanti. Ti lascio il link http://www.scuolainterpretionline.com/la-formula-elearning.html
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