All’inizio è stato il fast food. Erano gli anni ’80 e fast food significava libertà. Il sabato pomeriggio si andava al cinema con gli amici e poi a mangiare hamburger e patatine, il tutto rigorosamente senza genitori. Erano le primissime uscite da soli, del resto andavamo alle scuole medie. I nostri genitori impallidivano di fronte all’idea di abbinare la carne al milkshake, che per loro non aveva nulla di esotico, era un normalissimo frappè.
Il cibo dei fast food è costituito da hamburger, patatine, pollo fritto e simili.
Non si parlava ancora di junk food, cibo spazzatura, almeno in Italia, perché in America la definizione è dei primi anni ’70.
Già alla fine degli anni ’80 nasce il movimento slow food. Se il fast food è stato importato dai paesi anglosassoni, lo slow food è “un’invezione” tutta italiana.
Nasce a Bra e il suo fondatore, Carlo Petrini, si propone di diffondere una nuova consapevolezza alimentare, contrapposta a quello del fast food; non si tratta solo di scoprire o riscoprire la lentezza (slow, appunto), la convivialità e il gusto del cibo, è un movimento che insegna quanto il cibo sia legato alla cultura e alle tradizioni del territorio. Il cibo non ha più solo un nome, ha anche una provenienza ben precisa: il lardo è di Colonnata, il culatello di Zibello, la coppa piacentina, le olive sono taggiasche, il pecorino è romano o sardo, gli estimatori del prosciutto crudo sono divisi tra San Daniele e Parma. Carne, vini, affettati, formaggi, praticamente ogni alimento o bevanda viene riconosciuto per il luogo di provenienza. E non si parla solo di prodotti italiani. Nello stesso periodo, grazie a una nuova consapevolezza sulla provenienza dei prodotti, riprende slancio il commercio equo-solidale (fair trade): nato negli anni ’60, fino agli anni ’90 ha come mercato principale quello dei prodotti artigianali provenienti dai paesi più poveri, mentre i prodotti agricoli hanno un ruolo marginale, con una proporzione 80-20. Dagli anni ’90 la proporzione si inverte.
Cacao, cioccolato, caffè, spezie, alcune tisane (menta e carcadé), frutta secca, gli operatori non garantiscono solo qualità e provenienza dei prodotti, ne certificano la produzione secondo precise norme etiche: divieto di lavoro minorile, salari equi, valorizzazione e finanziamento delle piccole imprese locali, fondi per l’istruzione, sono solo alcuni dei vincoli posti ai produttori e alla filiera.
La cultura del cibo non si diffonde solo in Italia, ma in tutto il mondo, insieme a due fenomeni tanto diffusi quanto opposti: il luxury food e l’italian sounding.
La definizione luxury food (o specialty food) comprende tutti quegli alimenti, o bevande, particolarmente costosi a causa delle difficoltà di produzione o per le particolarità della lavorazione, oppure piatti molto elaborati da preparare: caviale, formaggi, frutti di mare, cioccolato, caffè e molti altri. Il consumo di alcuni alimenti che appartengono a questa categoria viene contestato da animalisti, ambientalisti e vegani a causa delle crudeltà inflitte agli animali coinvolti nella preparazione o per l’impatto ambientale: il foie grais (letteralmente fegato grasso, in francese), il caffè Kopi Luwak, il caviale, le aragoste, sono solo alcuni esempi.
L’italian sounding, “ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promozionare e commercializzare prodotti affatto riconducibili al nostro Paese. Esso rappresenta la forma più eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori, soprattutto nel settore agroalimentare” (qui). È il finto cibo italiano, che ha nomi evocativi, come il parmesan, e che secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico genera un giro di affari pari a 54 miliardi di euro l’anno, più del doppio del valore dell’export italiano per il settore agroalimentare (qui).
Il cibo di strada è conosciuto dai tempi dei nostri nonni, non è certo una novità, diciamo che in questi ultimi anni ha riscoperto un nuovo fascino da quando è conosciuto come street food e ha come portavoce personaggi famosi come lo chef Rubio. Lo street food può essere acquistato su banchetti (food booth o food stand) del mercato o delle fiere, ma anche per strada (mobile catering) da carretti (food cart) o furgoni (food truck).
Altra pratica conosciuta dai nostri nonni che oggi sta vivendo una seconda giovinezza, grazie anche al nome anglosassone, è il foraging (letteralmente: andare alla ricerca di cibo), ovvero la raccolta di cibo selvatico in ambienti naturali, tipicamente boschi (qui). Non si parla solo dei classici castagne, funghi o more, il foraging prevede la raccolta a fini alimentari di cortecce, licheni, acetosella, bardana, sambuco e molti altri prodotti naturali. Si prendono lezioni di alimurgia o fitoalimurgia (phytoalimurgy), scienza dell’alimentazione a base di cibi spontanei, giusto per non ingerire bacche o altro che possa risultare tossico o velenoso e poi si parte alla caccia. Se non avete voglia di vagare per i boschi in cerca di muschi e licheni, potete sempre valutare la possibilità di mangiare il vostro albero di Natale, ovviamente purchè non sia finto (qui). Per la traduzione di foraging Licia Corbolante propone raccolta spontanea.
Se fate parte di quel gruppo di persone che al ristorante passano più tempo a fotografare il cibo che a mangiarlo, sappiate che la vostra abitudine ha un nome, si chiama food porn, pornografia del cibo (qui). Non si tratta dell’utilizzo del cibo per pratiche erotiche, semplicemente è una forma di voyerismo applicata al cibo. Da questa pratica nasce Foodspotting una piattaforma social, tipo Instagram, interamente dedicata alle immagini del cibo.
E voi, di che food siete?
Bellissimo articolo complimenti.
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Grazie 🙂
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