Di tutte le tipologie di etichettatura, quella sull’origine degli ingredienti (Country of origin labelling) è prabilmente una delle più controverse che di paese in paese viene via via resa obbligatoria, più o meno restrittiva, talvolta proprio abolita.
Facciamo un po’ di storia
La necessità di tracciare o identificare da che paese arriva la merce è vecchia come è vecchio il commercio. Secondo David Wengrow (Cultures of Commodity Branding), archeologo e antropologo, ci sono testimonianze di etichettature sui contenitori di ceramica utilizzati per trasportare tessuti, oli e bevande alcoliche risalenti all’antico Egitto. Queste “etichette” non riportavano solo informazioni burocratiche, come qualità e provenienza della merce, ma anche informazioni e immagini su come i vari prodotti sarebbero stati utilizzati, ad esempio, nei riti della fertilità delle terre praticati dal faraone. Non solo, in Mesopotamia si poteva trovare un ampio sistema di marcatura dei prodotti utilizzato dalle autorità religiose dei templi per monitorare la quantità e la tipologia della merce, ma anche il modo per aumentare il valore di questi prodotti tramite particolari procedure di confezionamento ed etichettatura. Sempre in Mesopotamia sono stati rinvenuti sigilli d’argilla che venivano utilizzati per chiudere i pacchi contanenti cibo, dove la necessità di preservare l’integrità del prodotto contenuto nella confezione era fondamentale. L’integrità del sigillo, dimostrava l’integrità della merce. Tuttavia con la norma nasce anche l’infrazione. Già in quest’epoca, infatti, nascono le prime contraffazioni di questi sigilli, per simulare l’integrità dei prodotti.
Con la nascita della scrittura ci sono rimasti registri di questi prodotti alimentari, dove si può vedere che con l’accrescersi della civiltà mesopotamica, aumentarono anche le tipologie di prodotti immagazzinati e con essi, anche i sigilli sulle confezioni. Con l’aumentare di prodotti e sigilli, si fece sempre più importante la necessità di rendere questi ultimi non solo pratici e sicuri, ma anche immediatamente riconoscibili. Semplificando molto, è così che nasce il concetto di branding, di quel qualcosa che rende il produttore immediatamente riconoscibile da alcune caratteristiche del prodotto che crea.
Effetto nazione di origine (country of origin effect)
Già ai tempi di Marco Polo (1254-1324), quando il fatto che le merci arrivassero anche da terre molto lontane era ormai la norma, molti prodotti erano immediatamente associati ad alcuni paesi: la seta dalla Cina, il tè da Ceylon, le spezie dall’India, ecc..
Già allora la provenienza era associata alla qualità. Si parla in questo caso di made-in-image o di nationality bias, per indicare l’effetto che ha sul consumatore l’indicazione del paese di origine nel creare preconcetti su un prodotto in senso positivo o negativo. Indagini di mercato dimostrano che i consumatori sono più orientati verso alimenti prodotti nel proprio paese d’origine, specialmente quando non ci sono indicazioni specifiche sulle caratteristiche del prodotto, ci dicono inoltre che esistono paesi considerati più sicuri di altri, talvolta in concomitanza con alcune emergenze (basti pensare alle proccupazioni legate alla carne di manzo proveniente dall’Inghilterra, per l’Europa, e dal Canada, per gli Stati Uniti, nel periodo di emergenza per la BSE, la famigerata mucca pazza) o grazie a tradizioni alimentari consolidate, come nel caso dell’Italia.
Veniamo a noi
Lo scopo dell’etichettatura relativa all’origine degli ingredienti alimentari risponde a due necessità: sicurezza e qualità degli alimenti immessi sul mercato.
Se la sicurezza viene considerata imprescindibile da tutti i paesi (checché se ne possa pensare, nessun governo aspira ad avvelenare i propri cittadini), la qualità viene spesso ritenuta una scelta aziendale. Purché un alimento non nuoccia alla salute di chi lo consuma, la qualità più o meno elevata non sempre viene sentita come un elemento da normare.
In Italia ci sono due posizioni molto distanti su questo argomento: da una parte Coldiretti si sta battendo sin dal 2003, con fortune altalenanti, perché l’indicazione del paese di origine sia resa obbligatoria, anche oltre i limiti già imposti dalle normative Europee. Dall’altra Federalimenti ritiene che tutte le procedure previste dalla normativa europea in ambito di HACCP (Hazard Analysis and Control of Critical Points, un protocollo volto a prevenire le possibili contaminazioni degli ingredienti utilizzati nella produzione e lavorazione degli alimenti) siano più che sufficienti e che etichette eccessivamente restrittive comportino inutili aggravi nei costi di produzione, costi che finiscono inevitabilmente per pesare sulle aziende produttrici e di conseguenza sui consumatori. Secondo questa posizione, le normative europee garantiscono una maggiore sicurezza del prodotto perché non si limitano a certificare e monitorare l’origine di questo o dei suoi ingredienti, ma garantiscono la sicurezza dell’intera filiera, con una filosofia definita from farm to fork, reso in italiano con “dal campo alla forchetta”.
Quindi, perché l’Italia tiene così tanto all’indicazione del paese di provenienza, visto tra l’altro che il nostro curriculum in materia di provenienza della materia prima non è propriamente immacolato: basti pensare all’uso non dichiarato di olive provenienti dalla Turchia per la produzione dell’olio extravergine di oliva (per gli amici EVO) o alle massicce importazioni di triplo concentrato di pomodoro dalla Cina, giusto per citare i casi più famosi e recenti.
La risposta va vista nei numeri dell’Italian sounding. Negli Stati uniti la produzione di formaggi simil-italiani ha superato la produzione dei formaggi americani, l’Italia nel 2014 ha avviato oltre 140 procedure di infrazione in Europa contro le contraffazioni dei nostri prodotti agroalimentari. Coldiretti stima che la lotta all’italian sounding potrebbe risultare nella creazione di 300.000 nuovi posti di lavoro. Numeri davvero importanti che giustificano l’enorme sforzo di Coldiretti per ottenere che in Europa e all’estero venga riconosciuta l’obbligatorietà delle etichette sull’origine degli ingredienti.
Oltreoceano?
Gli Stati Uniti hanno una delle legislazioni più antiche in materia di origine dei prodotti: il Tariff act del 1930. Questo prevede che sia dichiarato l’ultimate purchaser, ovvero l’ultima persona americana a ricevere la merce nella forma in cui era stata importata e inizialmente era applicata alla carne di maiale, di manzo e di agnello. Leggi successive hanno ampliato il campo di applicazione fino ad includere oltre alla carne fresca anche quella lavorata, frutta e verdura fresche, noci, ecc.. Questa legislazione è estesa anche alle merci provenienti dai paesi aderenti al trattato NAFTA, Canada e Messico.
Nel 2015, dopo una battaglia durata 15 anni, il Congresso ha abrogato la legislazione inerente l’etichettatura della carne, venendo incontro alle richieste dei produttori dettate, pare, dalla necessità di ridurre i costi di produzione. Oggi come oggi negli Stati Uniti, per i produttori di carne, non è più obbligatorio indicare la nazione di origine.
Per contro, dall’altra parte dell’oceano, in Australia, vige una nuova normativa per l’indicazione del paese d’origine, molto dettagliata e restrittiva, che viene spiegata molto bene nel video esplicativo che accompagna la nuova normativa.
E voi? Pensate che l’indicazione dell’origine sui prodotti sia garanzia di sicurezza e qualità o pensate che siano sufficienti le normative in materia di sicurezza per garantire l’assenza di rischi nei prodotti alimentari?