Se come me amate cucinare, vi piacerà sicuramente organizzare cene fra amici: definire un filo conduttore per la cena (le mie preferite sono le cene mantovane per amici e colleghi bergamaschi), stabilire il menù, fare la spesa e poi la parte di cucina vera e propria. Vi sarà magari capitato di ospitare insieme ad amici e parenti conosciuti, commensali che non conoscevate, il marito della collega, il figlio della lontana parente. Fin qui nulla di strano. Provate a immaginare di ricevere per queste cene un compenso, nulla di stratosferico, una cifra sufficiente a coprire le spese e ad avere un piccolo guadagno; e magari che fra i vostri ospiti le persone sconosciute siano un po’ più di un paio. Ecco l’idea che sta dietro il social eating: cene (o pranzi) occasionali, sempre più spesso organizzate tramite i cosiddetti social network del gusto (il più famoso è gnammo) in cui degli sconosciuti si trovano per socializzare e mangiare; spesso si tratta di turisti stanchi di conoscere la cucina locale tramite i ristoranti e desiderosi di un approccio più diretto e sicuramente più economico, ma si sta diffondendo anche come idea per pranzi di lavoro e incontri di networking professionale diversi dal solito. Conosciuto anche come food surfing, è un’idea che viene dagli Stati Uniti su ispirazione del couch surfing, dove si offre il proprio divano a sconosciuti in cerca di un letto per un breve periodo (una notte o poco più) in cambio di una cifra simbolica, o anche di nulla.
Figlio della sharing economy (economia di condivisione), il social eating non deve essere confuso con il fenomeno sempre più diffuso degli home restaurant (ristoranti casalinghi). Benché il teatro dei pasti sia sempre lo stesso, la propria casa, la differenza principale è che l’home restaurant è un’attività imprenditoriale vera e propria, con aperture a cadenza regolare e regole igienico sanitarie e di sicurezza ben precise da seguire. Anche se una vera normativa per il cosidetto home food è ancora in fase di approvazione (tra le rimostranze delle associazioni dei ristoratori e le richieste di piattaforme e associazioni di queste nuove realtà), le piattaforme come gnammo hanno iniziato a stilare veri e propri codici deontologici da sottoscrivere e seguire per potersi iscrivere.
L’idea degli home restaurant nasce a Cuba dove prendono il nome di paladar (parola spagnola e portoghese per palato), da una soap opera brasiliana, Vale Tudo, dove compare una catena di ristoranti con questo nome. Fino al 1990 i paladar erano illegali, ma la caduta del muro di Berlino, la distensione nei rapporti fra USA e URSS e la conseguente crisi economica cubana, portarono a una regolamentazione nel 1993, dove una legge riconobbe queste attività così fondamentali per la sussistenza di molte famiglie messe in ginocchio dalla crisi economica.
Ben altro sono i temporary restaurant, i ristoranti a tempo, organizzati da grandi catene, come il temporary restaurant di Ikea a Parigi, o da chef famosi, come il temporary restaurant di Alessandro Borghese al casinò di Sanremo, o il lussuosissimo temporary restaurant di Alain Ducasse, vera leggenda degli chef di tutto il mondo. I temporary restaurant sono veri e propri eventi esclusivi legati a operazioni di marketing e di re-branding.
E voi, avete mai mangiato in un home restaurant o avete partecipato a incontri di social eating? Non barate, il pranzo della domenica dalla mamma non fa testo.
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