Il binomio cibo e donne risale sin dai tempi della pristoria.
Erano le donne ad occuparsi della raccolta del cibo e visto che la caccia aveva spesso esiti negativi, erano erbe, frutta e radici raccolte dalle donne ad assicurare il nutrimento dei gruppi nomadi della preistoria.
Ben presto le donne iniziarono a imparare a riconoscere i cicli delle piante e come usarle per mangiare e per curarsi.
Questo duplice ruolo della donna che nel suo rapporto con il cibo riveste l’incarico di nutrire, da un lato, e curare, dall’altro, la trasforma ben presto nel suo alter ego malvagio: la strega, che nell’immaginario comune utilizza il cibo non più solo per nutrire e curare, ma anche per uccidere, trasformare e soggiogare.
Le figure di donne streghe che utilizzano il loro sapere contro gli uomini sono numerose già nell’antica Grecia: Circe, Medea e ovviamente Ecate, la dea delle streghe e degli spettri.
Le streghe sono presenti anche nel Satyricon di Petronio, nei racconti che i commensali ascoltano durante il banchetto di Trimalchione si parla di streghe, folletti e lupi mannari.
Ovviamente di streghe si parla durante tutto il Medioevo, al termine del quale inizia la vera e propria caccia alle streghe con tanto di manuale su come riconoscerle, torturarle, processarle e ucciderle: il Malleus maleficarum (1487), il Martello delle streghe, ad opera di due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer.
Approvato da papa Innocenzo VIII e dall’imperatore Massimiliano I d’Austria, questo famoso manuale inquistoriale fu usato dai giudici cattolici e da quelli protestanti, che per una volta si trovavano concordi su qualcosa.
Le persecuzioni contro le streghe continuarono fino ad almeno tutto il diciassettesimo secolo e non restarono circoscritte all’Europa: la paura e il sospetto sbarcarono anche nelle Americhe dove alla fine del 1600 si celebrò il processo alle streghe di Salem, nel Massachusset. L’evento ebbe un impatto tale che la paranoia dilagò anche nei villaggi e nelle città vicine, coinvolgendo quasi venti città per circa un anno, quando il governatore del Massachusset si vide costretto a decretare la fine di tutti i processi per stregoneria.
Durante l’illuminismo si ritornò lentamente alla ragione.
In una celebre frase Voltaire dice:
“Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle.”
Dopo la “pausa” durante l’illuminismo, le streghe tornarono prepotentemente nell’immaginario collettivo nel periodo romantico, questa volta però solo nei racconti e nei romanzi. Ma in questo periodo compaiono anche le streghe buone, ovvero le fate. Non più solo vecchie brutte e malvagie, ma anche giovani, belle e buone.
Nella seconda metà del 1800 uno storiografo darà voce alle streghe, alle donne vittime di una persecuzione sessista, in una sorta di storia delle streghe dove l’autore cerca di rintracciare le origini di questa follia collettiva nata dall’ignoranza e alimentata dal fanatismo religioso sostenuto e voluto dalla Chiesa cattolica: Jules Michelet e il suo trattato La strega (1862).
Si stima che le vittime della caccia alle streghe nel periodo tra la fine del Quattrocento e la fine del Seicento furono oltre 110.000, per lo più donne; parliamo di stime perché gli archivi dei tribunali dell’Inquisizione furono in gran parte (opportunamente) bruciati per paura che potessero finire in mano ai “nemici” della Chiesa.
Le streghe sono donne (Jacob Sprenger scrive: “Si deve dire l’eresia delle streghe, non degli stregoni: questi contano poco), solitamente anziane e vedove, senza, quindi, un vero status sociale garantito da una figura maschile, conoscono le erbe, che usano a scopi curativi o per praticare aborti e spesso vivono in un contesto rurale e isolate.
L’uso delle erbe, la conoscenza della natura e dei suoi cicli, costituiscono la “colpa” di queste donne agli occhi della Chiesa, colpevoli di voler penetrare i misteri della creazione divina e di violarli.
Scrive Michelet: “Il solo medico del popolo per mille anni fu la Strega. Gli imperatori, i re, i papi, i baroni più ricchi avevano qualche dottore di Salerno, qualche Moro, qualche Ebreo, ma la gente di ogni condizione, e si può dire tutti, non consultava che la Strega, o Saggia donna. Se non guariva, la insultavano, la dicevano strega. Ma in genere, per rispetto e timore insieme, la chiamavano Buonadonna o Belladonna, dal nome che si dava alle fate”.
Testi suggeriti:
Jules Michelet, La strega, BUR
Maria Giuseppina Muzzarelli, Nelle mani delle donne – Nutrire, guarire, avvelenare dal medioevo a oggi, Editori Laterza
Stewart Lee Allen, Nel giardino del diavolo – Storia lussuriosa dei cibi proibiti, Feltrinelli
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